Le piccole imprese americane che producono beni di consumo, dai portachiavi ai materassi, continuano a preferire la manifattura cinese nonostante i recenti dazi commerciali. Secondo un rapporto del 2024 della National Small Business Association, il 78% delle PMI considera impossibile riportare la produzione negli Stati Uniti per tre motivi principali: costi, competenze e supply chain.
I costi del lavoro rappresentano la barriera più evidente. Un operaio manifatturiero statunitense costa in media 28 dollari l’ora, contro i 6-8 dollari delle regioni industriali cinesi. Anche considerando i dazi del 25% su alcuni prodotti, il risparmio rimane significativo, soprattutto per articoli a basso margine.
La competenza logistica cinese è un altro fattore decisivo. Distretti come quello di Shenzhen offrono fornitori specializzati a pochi chilometri di distanza, riducendo i tempi di produzione. Negli USA, invece, la frammentazione della base industriale obbligherebbe a lunghe catene di approvvigionamento.
Un dato poco noto riguarda i tempi di attrezzaggio: le fabbriche cinesi possono riconvertire le linee in 48 ore, contro le 2-3 settimane medie americane. Questa flessibilità è vitale per le PMI che lavorano su piccoli lotti o edizioni limitate.
Gli esperti avvertono che senza incentivi strutturali (non solo dazi) la situazione non cambierà. Il piano Biden per la manifattura, da 52 miliardi di dollari, finora ha beneficiato soprattutto le grandi corporation. Intanto, il deficit commerciale USA-Cina ha superato i 382 miliardi nel 2024, segno che le barriere tariffarie non stanno funzionando come previsto.
L’unica via praticabile per alcune PMI è il nearshoring in Messico, dove i costi sono intermedi e i tempi di spedizione più brevi. Ma per la maggior parte, almeno fino al 2026, la Cina resterà la scelta obbligata. Una dipendenza che rischia di durare ancora a lungo.